Iwájú - City of Tomorrow

Un Calcio nel Sedere

La storia della realizzazione di Iwaju inizia nel 2019, quando viene portato all’attenzione di Jennifer Lee un articolo nel quale si parla dell’affermarsi nel campo dell’intrattenimento di una nuova società di produzione panafricana, Kugali Media, con sede nel Regno Unito. Questa realtà, fondata da due creativi nigeriani, Olufikayo Adeola e Tolu Olowofoyeku, e un ugandese, Hamid Ibrahim, si pone come obiettivo il raccontare storie ispirate alla cultura africana, per il momento attraverso dei fumetti, ma senza volersi limitare ad un solo media. Ciò che colpisce Jennifer Lee è però il voler “to kick Disney’s arse”, che suona un po’ come una dichiarazione di sfida nei confronti del colosso dell’intrattenimento. Promossa di recente a capo creativo dei WDAS, l’autrice sta guardando in diverse direzioni per ampliare le possibilità narrative dello studio, e così decide di “raccogliere la provocazione” proponendo una collaborazione agli artisti di Kugali, in un tentativo di imbrigliarne il fervore creativo.

Siamo in un momento particolare nella storia della Company: il successo del Black Panther dei Marvel Studios ha aperto la strada all’affermarsi di un genere, l’Afrofuturismo, che sta prendendo sempre più piede anche fuori dal continente di origine. Siamo poi nel pieno di quella fase inclusiva e progressista che caratterizzerà le operazioni disneyane di quegli anni. C’è infine da considerare che è imminente il lancio di Disney+, piattaforma streaming che nei primi anni di esistenza dovrà esser nutrita di contenuti per aumentare il bacino degli iscritti, motivo per cui questo progetto capita a fagiolo. La collaborazione tra WDAS e Kugali inizialmente sembra prevedere un’antologia di corti futuristici sul modello di quel Kizazi Moto: Generation Fire che nel frattempo viene realizzato da Triggerfish per conto di un’altra divisione della Company. In breve tempo il progetto prende però una piega ben diversa, e si trasforma in una sorta di “film in sei parti” sul modello delle miniserie che Disney+ sta presentando sotto le etichette Marvel Studios e Lucasfilm.

Nel corso dell’Investor Day del 2020, evento in streaming nel quale la Company annuncia agli azionisti le sue strategie per superare la crisi pandemica, Iwaju viene presentato come parte di un set di serie tv di cui per la prima volta si occuperanno direttamente i WDAS. Nessun coinvolgimento da parte della Disney Television Animation, in quello che sembra un tentativo di abbattere le barriere produttive e di budget che separano da sempre il piccolo e il grande schermo. In realtà però, e questo diventa chiaro in seguito, quando iniziano a circolare i primi fotogrammi, il ruolo dello studio nel progetto è parziale. I Walt Disney Animation Studios seguono solo alcuni passaggi produttivi, mentre altri aspetti vengono gestiti esternamente: soggetto, direzione artistica e regia sono opera principalmente di Kugali, sceneggiatura e effettistica perlopiù WDAS mentre per l’animazione CGI vi è un terzo ente, Cinesite, che ha prestato i suoi servizi attraverso le sue sedi dislocate in Canada e Regno Unito. Non c’è però un confine netto tra i vari ambiti, e in realtà i gruppi di lavoro operano fianco a fianco, dando a Iwaju una natura artisticamente ibrida.

Lotta di Classe

Iwaju, che nel linguaggio Yoruba significa “verso il futuro”, è ambientato a Lagos in Nigeria, ma a cento anni da adesso. In questo scenario, i conflitti di classe e il divario sociale tra ricchi e poveri non si sono ancora risolti e hanno aumentato la frattura tra chi vive nei lussuosi territori isolani e chi invece abita la “mainland” e fatica a tirare avanti. Sullo sfondo di questa situazione a dir poco complessa assistiamo al rapimento con riscatto della piccola Tola, figlia di un ricco ingegnere della robotica, da parte del gangster Bode, che porta avanti una sorta di personale guerra contro il mondo facoltoso. Si tratta di un villain assolutamente degno di nota, parente di figure quali Sykes o Kingpin, dai quali eredita la forte presenza scenica, ma incredibilmente realistico nel suo cercare di giustificare il proprio operato criminale attraverso contorti ragionamenti che faticano a stare in piedi e hanno il solo effetto di tradirne la mollezza interiore.

Come si è visto, il soggetto di Iwaju è farina del sacco di Kugali, sebbene abbia trovato adeguato sviluppo grazie al personale WDAS. Jennifer Lee e Byron Howard, che qui figurano come produttori esecutivi, hanno infatti messo al lavoro sul progetto alcune figure chiave dello studio come Halima Hudson, stretta collaboratrice della Lee, che qui si occupa della sceneggiatura, e Natalie Nourigat, già regista dell’ottimo Far From the Tree, che in questo caso è head of story. Sul piano narrativo questa contaminazione è felice: il team di Kugali conosce Lagos, sa come funziona il suo tessuto sociale e ne restituisce una proiezione futuristica attendibile e sincera, senza mai glissare su contraddizioni e problematiche varie. Dal canto suo l’esperienza di Nourigat e del team WDAS è tangibile: la storia è messa in scena con chiarezza ed eleganza, il ritmo è buono, la narrazione è fluida. Funziona bene anche lo spezzettamento di quello che è in realtà un film da due ore in sei parti da una ventina di minuti: ogni episodio è intitolato ad un personaggio, si apre con un breve flashback che ne amplia il background in modo efficace, e si chiude con uno stuzzicante cliffhanger.

1. Iwaju. Intitolato come la serie stessa, questo primo episodio è corale e non segue la struttura degli altri. Le pedine vengono messe sul tavolo e presentate una alla volta. Non è davvero il primo assaggio di narrazione orizzontale ai WDAS, dato che due anni prima in Baymax! si era già visto un cliffhanger, tuttavia è la prima volta che tutto questo viene adattato al tradizionale formato seriale da venti minuti.

2. Bode. Da qui in poi la serie svela la sua struttura: ogni episodio si concentra su uno specifico protagonista, con un flashback nell’incipit. Si comincia con il villain, di cui osserviamo i traumi formativi, salvo poi ritrovarlo nel presente in una forma con la quale è difficile empatizzare. Il lavoro su di lui è però davvero ottimo, e in qualche modo il personaggio risulta comunque attraente.

3. Kole. Il giovane protagonista maschile, la cui backstory in realtà dona ulteriore carisma a Bode, di cui scopriamo le tattiche che usa per vincolare a sé le persone. È l’episodio della trasferta nella mainland e del rapimento di Tola. Questo evento chiave viene messo in scena attraverso alcune finezze registiche che hanno come protagonista Happiness, la scagnozza di Bode.

4. Tunde. La seconda metà di Iwaju è incentrata sul salvataggio di Tola. Protagonista stavolta è il padre che nel flashback vediamo interagire con un altro dei personaggi più curati della serie, il suo capo Mrs. Usman. Parte del fascino della storia è il suo lasciar volutamente qualche gradazione di grigio nella caratterizzazione dei personaggi: Tunde, pur presentato come un buono, si comporta in modo classista e altero con Kole e costituisce un ritratto verace di ciò che può succedere quando si dimenticano le proprie radici sulla strada per il successo.

5. Otin. Se Iwaju fosse stato montato come un film, a questo episodio corrisponderebbe il momento conosciuto come l’ora più buia. Al centro troviamo la lucertola robot che scopriamo essere un po’ più senziente di quel che si pensava, e in grado di parlare. Graficamente ci sono delle reminescenze del Bruni di Frozen II, mentre il suo ruolo di guardia del corpo rispecchia quello interpretato dal cane Bolt nel fittizio telefilm di cui era protagonista.

6. Tola. Il flashback iniziale sul primo incontro tra Tola e Kole dissolve sul loro ritrovarsi faccia a faccia dopo il tradimento di lui, in quello che registicamente è uno dei migliori incipit in tutto il progetto. Come sempre accade nelle serie Disney+ strutturate come film spezzettati, l’ultimo segmento copre interamente la battaglia finale contro Bode e i suoi scagnozzi. L’impressione è che forse ci sarebbe stato bisogno di maggior decompressione nell’epilogo, che risulta a conti fatti un po’ debole.

Alla colonna sonora di ognuno di questi sei episodi troviamo il compositore nigeriano Ré Olunuga, che realizza un sottofondo di strumentali che variano dall’etnico al sinfonico, senza mai però fare concessioni alla tradizionale struttura musical disneyana.

Un Problema di Immagine

Iwaju non è il primo caso di collaborazione tra Disney Animation e un ente esterno, coinvolto per supportare il processo di animazione vero e proprio. Il primo esempio risale al 1938, quando Walt Disney ricorse all’aiuto dello studio di Hugh Harman e Rudolf Ising per la realizzazione della Silly Symphony Merbabies. Nel 1983 invece fu la volta del Rick Reinert Studio che si occupò di animare il mediometraggio Winnie the Pooh and a Day for Eeyore. Si trattava però di casi limite, in cui la partnership non veniva pubblicizzata. Diverso il caso di Iwaju, nato proprio dalla volontà di creare un ponte con una diversa realtà. Anzi più di uno, dato che non si parla solo di WDAS e Kugali, ma c’è in gioco anche Cinesite. Sebbene nei materiali promozionali venga sottolineato come l’obiettivo sia quello di creare una forma d’animazione diversa ma qualitativamente pari a ciò che di solito i WDAS portano sul grande schermo, la verità è purtroppo ben diversa.

Per un occhio allenato e attento alle evoluzioni della CGI disneyana, l’esperienza Iwaju si traduce in uno spiacevole saliscendi percettivo. A volte a non convincere è il design di un personaggio, altre volte la sua modellazione, ogni tanto sono i movimenti, spesso è il rendering. In certi casi tutto fila liscio, in altri no, capita anche che alcuni elementi ben fatti condividano la stessa scena con altri più grezzi. È veramente difficile stabilire cosa davvero non funzioni e in che misura, cosa vada imputato e a chi. Il risultato è però inequivocabile, e a dispetto del marchio che porta, Iwaju fatica molto a stare nello stesso scaffale insieme a Frozen II, Encanto o Wish. In origine, il senso di queste serie targate WDAS era di esportare qualità cinematografica in ambito televisivo, ma sotto quest’ottica cercare risorse fuori dallo studio si rivela una mossa contraddittoria.

In un panorama visivo così poco omogeneo, possiamo trovare un’ampia gamma di casistiche. Tra le cose più riuscite c’è sicuramente il villain Bode, personaggio ben scritto e portato in scena in modo degno. Il suo design funziona, è convincente nella mimica, con una recitazione ricca di sottigliezze. Quando è in scena Bode si respira per davvero aria disneyana, e lo stesso vale per alcune figure di sfondo come la fatale Happiness e l’arcigna Mrs. Usman, tutti personaggi che sembrano esser stati tratteggiati rispettando gli eleganti principi estetici affinati ai WDAS. Sul fronte totalmente opposto troviamo invece la protagonista, la piccola Tola. C’è qualcosa in lei di completamente sbagliato, che inizia dal design e arriva al rendering. Tale mancanza di armonia sembra figlia di un insoddisfacente compromesso tra le parti e infligge una pesante ferita alla cultura visiva dello studio. La cosa non sarebbe un problema se non fosse che Iwaju, oltre che di Kugali, porta comunque la firma dei Walt Disney Animation Studios, che su design e animazione hanno costruito una vera e propria scienza.

Verso un Futuro?

Iwaju rappresenta uno strano precedente per i WDAS. Onesto ed efficace nella narrazione ma sgangherato nella messinscena, sembra voler inaugurare un modo radicalmente diverso di intendere il marchio. Non solo per il medium utilizzato, è la prima serie televisiva long-form e non basata su una IP preesistente a portare la firma dell’hat building, ma proprio per il modo in cui si sono impiegate le risorse e il peso specifico che si è scelto di dare alla componente disneyana. Ci si potrebbe vedere una ricerca di freschezza e originalità, quanto un drammatico tradimento della propria identità, a seconda della narrazione che si sceglie di sposare. Certo, aver messo il comparto visivo in secondo piano in nome di un occasionale scambio culturale sminuisce il percorso stesso dello studio Disney. La verità è che Iwaju, nel momento stesso in cui viene proposto al pubblico, è già un prodotto antico, figlio di una policy che la stessa dirigenza disneyana ha messo in discussione da qualche mese.

La serie, infatti, subisce un percorso accidentato: viene inizialmente annunciata per il 2022, nel momento in cui tutte le divisioni della Company sono al lavoro per nutrire di contenuti Disney+. Qualcosa dietro le quinte tuttavia va storto e così la data di uscita viene spostata in un primo momento al 2023, per finire poi a febbraio 2024. Solo allora Iwaju finalmente viene fatto caricato in piattaforma tutto in una volta, completo di tutti gli episodi e corredato da un documentario di un’ora sulla sua realizzazione. In questi due anni di attesa l’azienda viene profondamente scossa da svariati terremoti: un cambio al vertice, una serie di flop, un calo di popolarità e un boicottaggio politico. Ognuno di questi eventi incide drammaticamente sulla Disney Company, sulla sua piattaforma streaming e sugli studi principali, tra cui i Walt Disney Animation Studios che, dopo aver visto Strange World e Wish soffrire tremendamente al botteghino, si ritrovano a dover rivedere alcune politiche.

La loro successiva serie tv per Disney+ viene così rapidamente convertita in un lungometraggio per il cinema e si trasforma in Moana 2 in un tentativo di tornare a concentrare i propri sforzi su quello che era sempre stato il business principale. Paradossalmente questo triste clima non investe la ricezione di Iwaju che al momento della sua uscita in piattaforma schiva totalmente la nube velenosa sollevatasi con Wish. Per sua stessa natura, Iwaju non viene percepito come parte integrante dell’output disneyano, e passa relativamente inosservato. Chi sceglie di interessarsene ne elogia la freschezza narrativa, il piglio verista e la critica sociale, sorvolando sull’intero comparto visivo, giudicato più che sufficiente per una produzione televisiva. Alcuni si accorgono del paradosso secondo cui proprio in Nigeria Disney+ non sarebbe disponibile, ma in generale il prodotto si salva da quello che è il vero pericolo per l’intrattenimento di inizio anni 20: finire travolto dall’impetuosa corrente di una narrazione negativa.

Scheda pubblicata il 24 Luglio 2024.

di Valerio Paccagnella - Laureato in lettere moderne, è da sempre un grande appassionato di arti mediatiche, con un occhio di riguardo per il fumetto e l'animazione disneyana. Per hobby scrive recensioni, disegna e sceneggia. Nel 2005 fonda “La Tana del Sollazzo”, piattaforma web per la quale darà vita a diverse iniziative, fra cui l'enciclopedico The Disney Compendium e Il Fumettazzo, curioso esperimento di critica a fumetti. Dal 2011 collabora inoltre anche con Disney: scrive articoli per Topolino e Paperinik, e realizza progetti come la Topopedia (2011), I Love Paperopoli (2017) e PK Omnibus (2023).

Scheda tecnica

  • Titolo originale: Iwájú
  • Anno: 2024
  • Durata:
  • Produzione: Christina Chen
  • Regia: Olufikayo Ziki Adeola
  • Sceneggiatura: ,
  • Musica: Ré Olunuga
Nome Ruolo
Olufikayo Ziki Adeola Regista; Sceneggiatura
Christina Chen Produttore
Halima V. Hudson Sceneggiatura
Ré Olunuga Musica

Extra

Documentari

Promozione

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