Big Hero 6

Esplorando gli Archivi Marvel

Nel 2009 The Walt Disney Company acquisisce la Marvel, ampliando ulteriormente i propri orizzonti. I risultati di questa acquisizione sono oggi sotto gli occhi di tutti: i film supereroistici diventano il prodotto di punta del listino live action della multinazionale, andando incontro ad un incremento produttivo vertiginoso. Inoltre il Marvel Cinematic Universe, il progetto di interconnessione narrativa tra i film dei Marvel Studios, si rivela essere un'idea vincente e redditizia, tanto da venir emulata anche da altri colossi dell'entertainment. Il secondo effetto di questa importante manovra aziendale è la realizzazione di Big Hero 6, film d'animazione prodotto dai Walt Disney Animation Studios, e dunque il 54° lungometraggio del loro canone. Nei giorni febbrili successivi all'acquisizione, è lo stesso Bob Iger, CEO della Company, ad incoraggiare i WDAS a vagliare le possibilità narrative offerte da questo nuovo scenario aziendale. Al regista Don Hall, da sempre appassionato di comics, viene così assegnato il compito di esplorare l'archivio Marvel, per trovare qualcosa di adatto ad essere trasformato in un classico d'animazione. In quei giorni Hall stava dirigendo Winnie the Pooh (2011) con ottimi risultati, dando al brand dell'orsetto di pezza nuova linfa vitale, per cui cimentarsi con qualcosa di totalmente diverso poteva essere l'occasione di dimostrare la propria versatilità come regista.
La scelta ricadde su Big Hero 6, una miniserie pressoché sconosciuta, che si dipanava attraverso un paio di cicli narrativi pubblicati rispettivamente nel 1998 e nel 2008. La storia originale era molto diversa da ciò che sarebbe giunto poi sullo schermo, e infatti la politica del team produttivo fu proprio quella di prendere le distanze dalla fonte il più possibile. Sebbene alcune importanti personalità Marvel come Joe Quesada e Jeph Loeb abbiano seguito da vicino il progetto, Big Hero 6 non venne affatto concepito come estensione dell'etichetta Marvel. Doveva essere invece un prodotto scollegato dalla “casa delle idee” e totalmente allineato alla produzione dei WDAS, che in quel periodo stavano infatti iniziando a battere strade diverse dal solito, come dimostrato dall'innovativo Ralph Spaccatutto (2012). Sceneggiatori e soggettisti vennero addirittura incoraggiati a non leggere il fumetto originale, per non farsi condizionare, mentre dal canto loro i dirigenti Marvel evitarono di cavalcare l'onda del film con ristampe a tema. Dopotutto la Company non aveva alcun interesse a mettere in circolazione differenti versioni della stessa storia che potessero confliggere e generare confusione nel pubblico.
Lo spirito con cui l'operazione venne condotta non fu dissimile dunque da quello dimostrato nel corso della storia degli studios. Ben lungi dal volerlo inserire all'interno della continuity del Marvel Cinematic Universe, il rapporto tra fonte e adattamento fu esattamente lo stesso di film come Pinocchio (1940), Il Gobbo di Notre Dame (1996) o Hercules (1997), solo vagamente ispirati alle opere di partenza. L'esempio più lampante è la città in cui il film è ambientato. Nel fumetto la vicenda aveva luogo a Tokyo, mentre per il film animato è stata creata una metropoli completamente diversa, San Fransokyo, il risultato della fusione tra la capitale giapponese e la città di San Francisco. Che si tratti di una dimensione parallela in cui le due zone geografiche stranamente coincidono, o un vicino futuro in cui si è avuta una curiosa commistione tra differenti culture, questo insolito mix tra oriente e occidente funziona benissimo e permea la storia a vari livelli. Lo stile delle architetture, la struttura urbanistica, il modo in cui le luci colorano le strade di notte contribuiscono a rendere San Fransokyo quasi un personaggio a sé, simbolo dell'approccio artistico dei WDAS alla materia.
Baymax, Il Bianco Mattatore

È innegabile che nella cultura popolare il cinema disneyano non venga quasi mai associato al genere action, ma alle fiabe e ai musical. Realizzare un film supereroistico poteva dunque sembrare un azzardo, compromettendo quell'identità e riconoscibilità che il marchio Disney negli ultimi anni stava ricostruendosi presso il grande pubblico. Per portare avanti il progetto senza farlo deragliare era necessario trovare un elemento capace di regalare all'opera una forte componente emotiva. A risolvere il problema fu Baymax. Questo robot infermiere dal corpo gonfiabile e dalla voce sintetica e gentile rappresenta di fatto il cuore del film, e non è un caso che nell'edizione giapponese il titolo non sia Big Hero 6 bensì il nome di questo straordinario personaggio.
Big Hero 6 narra infatti la storia del giovanissimo genio della robotica Hiro Hamada e del suo difficile e lento percorso per elaborare e accettare la morte del fratellone Tadashi, suo mentore ed ispiratore. Nei primi momenti il film racconta il rapporto tra i due fratelli con dolcezza e trasporto, facendo così immedesimare maggiormente lo spettatore nel dolore di Hiro, una volta che la tragedia si compie. Baymax rappresenta dunque l'eredità di Tadashi, da lui costruito per curare le persone, e il mezzo ideale attraverso il quale Hiro riuscirà a guarire dal suo lutto. Il ragazzino indagherà sulla morte del fratello riuscendo a mettere insieme un team di eroi per sventare i piani di un villain misterioso, ma il modo in cui Baymax prenderà parte alla vicenda sarà sempre e solo in qualità di infermiere, improvvisatosi supereroe unicamente in funzione della “terapia emotiva” che sta conducendo sul suo piccolo paziente.
Graficamente Baymax somiglia ad un grosso palloncino bianco, che gli animatori hanno ideato ispirandosi ad alcuni reali prototipi robotici in vinile, studiati alla Carnegie Mellon University, dove la produzione ha svolto delle ricerche. Per realizzare la sua andatura impacciata invece ci si è ispirati a quella dei pinguini e al movimento goffo dei neonati con il pannolino, un mix di elementi capaci di risultare molto attraenti per il pubblico, da sempre sensibile ai personaggi teneri. Candido sia nell'aspetto che nella personalità, tanto da sembrare un corrispettivo robotico di Winnie the Pooh, Baymax sfoggia una recitazione d'eccezione, mantenendosi in perfetto equilibrio tra pantomima e humor verbale. Il suo fondamentale ruolo nel film, unito ad una formidabile presenza scenica, ne fanno un mattatore ideale, capace di smussare con le sue forme morbide le ”spigolosità“ di questo tipo di narrativa, facendola rientrare nei canoni della disneyanità.
La Super-Formula

La toccante vicenda di Hiro, Tadashi e Baymax è il centro del film, ma non si può certo dire che lo stesso spessore lo abbia anche il resto del menu. La componente più esplicitamente “action” di Big Hero 6 non riesce infatti a rielaborare in modo personale gli stilemi del cinema supereroistico, ma finisce per allinearsi ad essi. L'indagine intrapresa da Hiro e dai suoi nuovi amici per svelare i segreti del misterioso cattivo con la maschera kabuki non è particolarmente originale, e basterà una leggera infarinatura di cinema d'azione per indovinarne l'identità sin dal principio. Già con Ralph Spaccatutto (2012) e Frozen (2013) avevamo avuto trame maggiormente strutturate e debitrici del cinema action, con colpi di scena e villain a sorpresa, ma in quei casi tali sviluppi avevano il sapore di guizzi inaspettati, risaltando all'interno di strutture narrative più classiche. Big Hero 6 però non gioca in casa, ma in un territorio in cui ribaltamenti e colpi di scena sono all'ordine del giorno, per cui certe cose giungono meno inaspettate e le ingenuità narrative saltano maggiormente all'occhio.
È un peccato inoltre che il resto del cast venga fortemente sottoutilizzato. Gogo Tomago, Honey Lemon, Fred e Wasabi, personaggi potenzialmente interessanti, sono in realtà poco più che ombre, figure abbozzate. A dispetto del design formidabile di molti di loro, il quartetto dei nerd non riesce mai a spiccare e se si esclude la succosa scena post credits che sembra introdurre una storyline per Fred, nel corso del film non c'è traccia di backstory o di approfondimento per nessuno di loro. Le loro personalità sembrano rifarsi a stereotipi piuttosto abusati: la tipa tosta, quella iperattiva, il nerd esaltato e quello rigoroso. Ogni loro battuta sembra voler forzatamente evidenziare l'aspetto monodimensionale della loro personalità, finendo per farli risultare piatti, e danneggiando di conseguenza il comparto umoristico. Se si confronta la loro resa con quella di quel personaggio collettivo che era l'equipaggio di Atlantis (2001), non si potrà fare a meno di notare come all'epoca si fosse fatto un lavoro migliore per riuscire a dare con poche pennellate uno spessore a quelle che dopotutto non volevano essere altro che macchiette.
L'impressione generale è che questa componente “convenzionale” sia una sorta di passaggio obbligato per uniformare il film ad uno standard, candidandolo così a capitolo uno di un ipotetico franchise. Sequenze come quella in cui Hiro durante la lotta suggerisce ai suoi amici di “guardare le cose da un altro punto di vista” e tutti improvvisamente hanno un'epifania e si liberano dalla stretta dell'avversario, sembrano volersi rifare a schemi ben consolidati e ormai datati. Lo stesso vale per il modo fin troppo automatico in cui il gruppetto decide di intraprendere la carriera supereroistica, continuando a svolgerla persino dopo la conclusione della vicenda. Se in futuro il franchise continuerà, molte di queste pecche verranno certamente rilette in una prospettiva diversa, ma l'impressione è che con qualche stratagemma in più si sarebbe potuto impreziosire ulteriormente questa prima incursione Disney nel campo dei supereroi.
L'Arte di San Fransokyo

Sin dall'inizio della loro avventura nel campo della CGI i Walt Disney Animation Studios hanno portato avanti un discorso molto personale. Benché la natura volumetrica di questa tecnica di animazione avesse spinto altri studi come la Pixar a puntare sul fotorealismo nella rappresentazione degli scenari, I WDAS invece hanno fatto propria la filosofia del NPR (Non Photorealistic Rendering), puntando su uno stile più astratto e impressionista e dando ai propri fondali un aspetto pittorico. Con Big Hero 6 e i suoi scenari metropolitani il rischio di venir meno a questa politica era molto alto. San Fransokyo è infatti un setting intrigante e fantasioso, ma pur sempre una città, con fabbriche, edifici e magazzini. E non si può negare che sono parecchi i momenti in cui il film si avvicina più all'estetica dei film live action o Pixar, piuttosto che a quella codificata dai WDAS, come nelle scene ambientate in interni o nelle zone della città più spoglie. Sono presenti però numerose sequenze in cui il tocco disneyano invece si avverte: più precisamente, la magnifica scena in cui Hiro e Baymax sorvolano la baia, immersi tra le nubi rosa e arancioni, lo spettacolare climax finale in cui viene visitata una surreale dimensione, molto simile ad un quadro di Van Gogh e le sequenze in notturna, che mostrano la città illuminata da luci colorate e immerse in una magica nebbiolina, che si contrappone all'atmosfera diurna, chiaramente più concreta e realistica. Inoltre l'intero lungometraggio beneficia di un'illuminazione d'eccezione, realizzata da un nuovo software di rendering, sviluppato per l'occasione e chiamato Hyperion.
Per quanto riguarda l'animazione dei personaggi, siamo ad un livello di eccellenza assoluta. La rivoluzione stilistica apportata da Glen Keane con Rapunzel (2010) ha di fatto risolto il problema della figura umana, da sempre tallone d'Achille della CGI. L'animazione di Big Hero 6 ancora una volta vede gli artisti della computer grafica basare il proprio lavoro su bozzetti e pencil test realizzati da animatori 2D, i quali poi supervisionano ogni animazione e apportano le loro correzioni, disegnando direttamente su schermo. A ricoprire il ruolo di supervisore che fu di Glen Keane troviamo ancora una volta l'ottimo Mark Henn, subentrato l'anno precedente con Frozen (2013), che qui fa un lavoro a dir poco spettacolare nel restituire ai movimenti dei modelli la sensibilità del disegno a mano. La cosa è evidente sin dalla primissima scena, in cui assistiamo alle gare clandestine tra robot radiocomandati, e in cui personaggi che nel film sono poco più che comparse sfoggiano un design sofisticato quanto i protagonisti.
Le diversità nella recitazione e nella somatica tra le ragazze del supergruppetto forniscono una risposta alle diverse polemiche che ai tempi di Frozen erano emerse sulla troppa somiglianza del modello femminile a quello di Rapunzel. È chiaro che la capellona, essendo stata la soluzione ad un annoso problema, abbia settato un nuovo standard qualitativo e stilistico. Ma è anche vero che le varianti Calhoun, Elsa, Anna, Honey Lemon e Gogo Tomago rappresentano variazioni sul tema radicalmente differenti tra loro, anche piuttosto estreme nel caso delle ultime due, che convivono tranquillamente nello stesso film senza somigliarsi affatto. Discorso diverso per l'afroamericano Wasabi, che invece rappresenta una tipologia umana non ancora esplorata in questi film e porta una ventata di novità nel panorama delle figure maschili. All'interno del gruppetto quello che ancora risente leggermente della tipica plasticosità della computer grafica è Fred, che come design inoltre ricorda un po' Shaggy di Scooby Doo. Infine non si può fare a meno di notare la presenza di alcuni personaggi dai tratti marcatamente orientali, come Tadashi, e altri dal design più tipicamente manga. È il caso del Professor Callaghan, le cui rughe del volto e il contorno degli occhi mostrano dei tratti più spigolosi e fumettistici, aumentando la resa 2D del tutto.
Prove Tecniche di Immortalità

C'è una legge non scritta a Hollywood che suggerisce di riservare la classica struttura musical disneyana solo a film che seguono l'impostazione fiabesca di Rapunzel o Frozen. Al contrario, sembra che le canzoni siano bandite in quei progetti che in qualche modo vogliano andare oltre, ricercando schemi narrativi più attuali. Se dopo la hit avuta con Frozen e la sua Let It Go la dirigenza la pensi ancora così è da vedere, tuttavia è innegabile che Big Hero 6 sia stato concepito seguendo tale codice. È infatti presente una bella partitura strumentale di Henry Jackman, che per i WDAS aveva già composto le musiche di Winnie the Pooh e Ralph Spaccatutto, ma le canzoni sono pressoché assenti. Vi è però un'eccezione.
- Immortals - Questo brano rock è stato composto ad hoc dai Fall Out Boy e, inaspettatamente, non è confinato ai soli titoli di coda, ma è presente anche all'interno del film. Si tratta di una sequenza musicale fuoricampo che descrive la trasformazione del gruppo dei nerd in supereroi, seguendo i loro allenamenti nella villa del padre di Fred, controfigura animata di Stan Lee. Già in passato i WDAS avevano inserito sequenze musicali a sorpresa in lungometraggi che non erano dei musical, come in Treasure Planet e Bolt, e fa piacere che qui, sia pur in minima parte, si sia voluto pagare un piccolo tributo alla tradizione, anche se con un brano tanto diverso dal solito. Bisogna inoltre ricordare che, solo nella versione italiana dei credits, è stata inserita una seconda canzone, Supereroi in San Fransokyo, scritta dal cantante rap Moreno.
Lascia perplessi che il comparto musicale sia stato ancora una volta penalizzato, per uniformarsi ad un codice esterno a quello disneyano. Dopotutto la musica ha sempre fatto parte dello storytelling Disney sin dagli albori, senza per forza essere associata alle fiabe più tradizionali. È una questione di spirito e di DNA, anziché di generi cinematografici, motivo per cui viene da chiedersi se invece una formula ibrida non avesse potuto donare a Big Hero 6 una marcia in più, portando sul mercato un musical supereroistico, qualcosa di davvero mai visto prima (se si esclude Dr. Horrible di Joss Whedon).
In definitiva Big Hero 6 è un film dalle molteplici anime. Rappresenta sicuramente un tentativo coraggioso di portare i WDAS su un territorio a loro estraneo per colonizzarlo e riadattarlo alla propria estetica, ma a differenza dell'ottimo Ralph Spaccatutto, qui il tentativo riesce a metà, e il film sfugge dagli stilemi disneyani per rimanere impigliato in tutt'altra rete di regole. Ma al di là di queste considerazioni filosofiche su quanto effettivamente si sarebbe potuto fare meglio, è innegabile che quello che di fatto abbiamo è un film che si regge sulle sue gambe, capace di intrattenere, divertire e intenerire. Big Hero 6 quindi funziona. Non doveva essere facile venire dopo Frozen, la più grande hit della storia dell'animazione, e proporre al pubblico un qualcosa di così diverso, eppure il lungometraggio è riuscito comunque a imporsi e a ottenere in USA un risultato di tutto rispetto. Supereroi e grandi incassi di questi tempi significano una cosa sola: sequel. E per quanto i WDAS fino ad oggi abbiano sistematicamente evitato di abbracciare certe politiche, è probabilmente solo una questione di tempo perché un seguito di questo film vada ad unirsi ai già rumoreggiati Ralph 2 e Frozen 2. D'altronde la chiusa, la scena dopo i credits e la conseguente benedizione di Stan Lee non lasciano molti dubbi in merito: questo è chiaramente un capitolo introduttivo, e il lasciapassare per una nuova epoca per la filmografia degli studios. L'epoca dei franchise.


di Valerio Paccagnella - Laureato in lettere moderne, è da sempre un grande appassionato di arti mediatiche, con un occhio di riguardo per il fumetto e l'animazione disneyana. Per hobby scrive recensioni, disegna e sceneggia. Nel 2005 fonda “La Tana del Sollazzo”, piattaforma web per la quale darà vita a diverse iniziative, fra cui l'enciclopedico The Disney Compendium e Il Fumettazzo, curioso esperimento di critica a fumetti. Dal 2011 collabora inoltre anche con Disney: scrive articoli per Topolino e Paperinik, e realizza progetti come la Topopedia (2011), I Love Paperopoli (2017) e PK Omnibus (2023).

Scheda tecnica
- Titolo originale: Big Hero 6
- Anno: 2014
- Durata:
Credits
Nome | Ruolo |
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