Frozen II - Il Segreto di Arendelle

Costruire un Secondo Atto

L’uscita del primo Frozen nel 2013 venne salutata come un vero e proprio evento cinematografico. Il ritorno della Company alla formula tanto apprezzata della fiaba musicale era già avvenuto qualche anno prima con The Princess and the Frog (2009) e Tangled (2010), titoli validi e intriganti che avevano contribuito a riavvicinare il pubblico al genere. Frozen, tuttavia, forte di un registro narrativo più elevato, e di due protagoniste femminili particolarmente indovinate, si era spinto oltre, diventando un autentico fenomeno di costume. Trattandosi del più alto incasso mai avuto fino a quel momento da un film animato, non ci volle molto che la Disney Company decidesse di cavalcarne l’onda, producendo merchandising e adattamenti di ogni genere. Anna ed Elsa godettero di una rappresentazione teatrale, di un’incarnazione live-action all’interno della serie televisiva Once Upon a Time, e fecero addirittura capolino nelle sale cinematografiche in due brevi produzioni animate, Frozen Fever e Olaf’s Frozen Adventure realizzate dagli stessi WDAS nell’ottica di tenere vivo l’interesse per l’universo di Arendelle.
L’annuncio della messa in lavorazione di un vero e proprio sequel, tuttavia, fu a dir poco sorprendente. I Walt Disney Animation Studios raramente avevano realizzato seguiti dei propri film, se si esclude il ritorno di personaggi idealmente ricorrenti, quali Paperino, Winnie Pooh o Bianca e Bernie. Negli anni 90 i reparti televisivi avevano tentato di creare dei seguiti a basso costo di alcuni dei film Disney più iconici, ma si trattava di materiale apocrifo e spesso scadente. Fino a Ralph Spacca Internet (2018) l’usanza non prese mai piede ai WDAS, e a ben vedere anche quel film era un bizzarro ibrido tra un seguito vero e proprio e un’avventura originale con protagonisti personaggi già noti. Insomma, Frozen II rappresentava qualcosa di mai realmente tentato da quelle parti.
Perché il film potesse essere degno di sfoggiare un numero progressivo nel titolo c’era bisogno che venisse concepito come un effettivo atto secondo della storia raccontata sei anni prima. Bisognava amalgamare i due lungometraggi in una narrazione organica e per raggiungere un tale obiettivo era necessario che a venir coinvolto fosse il team creativo originale. Frozen II vede quindi il ritorno dei registi del primo film, Chris Buck e Jennifer Lee. Quest’ultima poi è responsabile anche della sceneggiatura, mentre nel team che ha lavorato alla storia figurano gli stessi coniugi Lopez, che ritornano anche come autori delle canzoni. Si tratta di un film cruciale per la Lee, subentrata da poco a John Lasseter nel ruolo di capo creativo dei Walt Disney Animation Studios. L’autrice si è trovata infatti al timone dello studio d’animazione più antico di Hollywood e allo stesso tempo a lavorare direttamente su un film complesso, attesissimo e profondamente personale.
Oltre la Zona di Comfort

L’origine dei poteri di Elsa era il principale quesito lasciato insoluto dal primo film. All’epoca si ritenne che il dettaglio non avesse bisogno di ulteriore sviluppo, ma adesso questo mistero irrisolto poteva essere il punto di partenza per dare ai due capitoli la coesione di cui c’era bisogno. Nel film il gruppo di protagonisti si mette in viaggio per sventare un’apparente rivolta degli elementi naturali, e raggiunge la Foresta Incantata, dimora del popolo indigeno dei Northuldri. Nel corso dell’avventura si arriverà a una comprensione più profonda della natura di Elsa, e verranno rivelati i segreti celati nel passato del regno di Arendelle e della loro famiglia. Per raggiungere le numerose verità che le attendono, Anna ed Elsa dovranno immergersi completamente nella mitologia di quelle terre, stabilendo una connessione con i quattro spiriti elementali della tradizione norrena.
Per dare al sequel una dignità pari, se non superiore all’originale, i registi optano per svincolarsi dal linguaggio della fiaba, entrando a gamba tesa nel territorio del fantasy epico. Frozen II ne esce quindi come un film decisamente più dark dell’originale, e per certi versi anche più maturo e ambizioso. Non vuole essere un semplice more of the same ma sceglie di sconfinare in altri generi senza tuttavia rinunciare alla grammatica cinematografica dei musical di Disney. Anzi, la sfrutta appieno, utilizzando le sequenze musicali proprio per accentuare l’epicità dei suoi fondamentali snodi narrativi e celebrare degnamente la sua appartenenza alla tradizione. L’ultima cosa che Frozen II vuole essere è un sequel pigro e basato unicamente sul successo del predecessore, e questa ansia da prestazione si riflette qua e là nel prodotto finito lasciando qualche sbavatura.
Ci sono infatti delle ombre: alcuni passaggi dell’indagine di Anna ed Elsa rimangono poco chiari, si ha il sospetto che gli archi narrativi di Olaf e Kristoff dovessero in origine avere ben altro sviluppo, mentre i personaggi nuovi risultano poco sfruttati. L’impressione è che la carne al fuoco fosse tanta e che il desiderio di ripagare le attese e tener conto di tutto abbia causato qualche inciampo nell’esposizione. Si tratta però di imperfezioni che non inficiano la bontà del risultato finale. Frozen II è un film di rara potenza visiva e narrativa, elegante e ricco di contenuto. Ma soprattutto riesce nell’arduo compito di creare quella perfetta geometria strutturale in grado di renderlo a tutti gli effetti la seconda metà di un discorso e non una sua sterile appendice. La direzione verso cui viene condotto l’arco narrativo delle due sorelle protagoniste è a dir poco perfetta: crescere e uscire dalla zona di comfort sembra riassumere perfettamente il senso dell’opera, una lezione tanto per i personaggi, quanto per gli stessi film-maker, qui all’apice della loro maturità artistica.
Tecnica o Stile?

Non c’è alcun dubbio che nell’arco di un solo decennio i Walt Disney Animation Studios abbiano conquistato il primato nel campo dell’animazione computerizzata, spodestando la loro gemella di Emeryville. A fronte della sempre crescente potenza tecnologica, arrivare a questo risultato non è stato solo una questione di budget ma è dovuto a una riflessione continua sulla natura di questa forma d’arte. Non si tratta semplicemente di tecnica, ma di stile. Trasferire nella CGI gli elementi estetici e le sensibilità dell’animazione tradizionale è ancora l’obiettivo primario ai WDAS e si può dire che Frozen II corra a perdifiato in questa direzione. Le due protagoniste sono ancora modellate sui disegni di Mark Henn ma questa volta la resa estetica è addirittura superiore. Anche qui si potrebbe attribuire il merito di questi passi avanti al progresso tecnologico, ma la verità è che a essersi ulteriormente raffinato è proprio l’approccio al movimento. La recitazione è meno enfatica, tende ad un maggior realismo, i movimenti sono meno ampi e più misurati: emblematica la scena in cui vediamo Elsa partecipare al gioco del mimo, gesticolando con le dita in modo impacciato e incerto. La sensazione è che il personaggio stia realmente rimuginando e che quindi sia vivo.
Gli scenari in cui si muovono i personaggi di Frozen II sono mozzafiato e a loro volta portano avanti la poetica visiva dello studio, rifuggendo il fotorealismo e abbracciando un tipo di rappresentazione il più ideale possibile. Dopo che nelle precedenti produzioni, lunghe e brevi, avevamo visto Arendelle in estate, primavera e inverno, tocca all’autunno fare gli onori di casa, conferendo al film una palette di colori caldi e un’atmosfera malinconica e leggermente decadente. La Foresta Incantata, con le sue altissime betulle riesce a restituire agli ambienti tridimensionali un aspetto vagamente stilizzato e verticale. Per ammissione degli stessi autori, il principale riferimento visivo è stata infatti l’arte di Eyvinde Earle, responsabile dell’aspetto geometrico degli alberi di Sleeping Beauty (1959) tanto tempo prima.
Ma più di ogni altra cosa, Frozen II passerà alla storia come il film animato in cui gli effetti speciali hanno trasceso il loro ruolo accessorio per diventare protagonisti assoluti dello spettacolo, un po’ come avveniva nella sequenza de Lo Schiaccianoci di Fantasia (1940). Gli spiriti elementali e le tracce da loro lasciate sull’ambiente sono infatti al centro della trama e hanno messo i tecnici degli effetti nella condizione di dover imparare a pensare come animatori. Il risultato più eclatante è senza dubbio lo spirito dell’acqua, il Nokk, raffigurato come un imponente cavallo liquido, in grado di modificare la propria densità. Non una semplice raffigurazione fotorealistica di una massa d’acqua in forma equina, ma qualcosa di maggiormente stilizzato, una figura affascinante e suggestiva, sospesa tra il piano della realtà e dell’astratto. Ed è proprio l’astrazione il punto d’arrivo di questo nuovo approccio all’animazione digitale. I due numeri musicali con protagonista Elsa traboccano di trovate del genere: figure che emergono venendo “disegnate” dal pulviscolo, forme geometriche colorate a tinte piatte, un uso insistito dello sfondo nero che rimanda a Mary Blair e diversi altri tocchi deliziosamente grafici. Frozen II è probabilmente uno dei film animati artisticamente più riusciti, ma è bene sottolineare ancora una volta come questo risultato non sia semplicemente frutto dell’inevitabile progresso tecnico ma di una serie di scelte stilistiche intelligenti e lungimiranti.
Sorpassando Let It Go

Parte della sfida nel realizzare il primo vero sequel di un musical disneyano stava nel capire come strutturarne la colonna sonora. Trattandosi di un seguito, quanto e come avrebbe dovuto richiamare i precedenti brani? Ci sarebbero dovuti essere dei reprise di temi iconici come Let It Go o una partitura nuova di zecca? Gli esempi di serializzazione della musica disneyana fino a quel momento si contavano sulle dita di una mano. Il televisivo Galavant (2015) di Alan Menken proponeva canzoni sempre nuove ad ogni episodio, una manciata di reprise e un medley nel gran finale. In Mary Poppins Returns (2018) le canzoni erano tutte nuove ma costruite sulla falsariga dell’originale. Winnie the Pooh (2011) riproponeva il tema principale, insieme ad una serie di brani nuovi. Si trattava comunque sempre di singolarità produttive. Una “ricetta” vera e propria non esisteva ancora e andava quindi inventata. In Frozen II torna il team del primo film, con i coniugi Lopez alle canzoni e Christophe Beck alle strumentali, e i tre decidono di recidere il cordone ombelicale con l’originale e proporre un’esperienza autonoma e a prova di nostalgia.
I Lopez, lavorando anche alla storia, si ritrovano inoltre a costruire il proprio musical su un terreno più action, escogitando nuove e ardite soluzioni per dare alla musica un ruolo centrale. Ne esce una colonna sonora meno orecchiabile rispetto al primo film, ma più drammatica, matura e profonda, in grado di condurre l’opera verso vertiginose vette espressive. La connessione tra musica e storia raggiunge un ulteriore livello di organicità se si pensa che a mettere in moto gli eventi è un richiamo costituito da quattro note che, in modo diverso, andranno poi a integrarsi nei due numeri musicali principali. Altro dettaglio degno di nota (nonché l’unica concessione alla nostalgia) è il brano strumentale Vuelie che apriva il primo film e che qui si scopre essere l’inno tribale dei Northuldri, assumendo quindi un ruolo intradiegetico e gettando una nuova luce sulla precedente partitura.
All Is Found. Ad aprire il film è un brano dalle sonorità celtiche. In un flashback vediamo Iduna, la madre di Elsa e Anna, cantar loro una ninna nanna che parla di Ahtohallan, il fiume della memoria. La scelta si rivela assolutamente azzeccata e permette al film di impostare da subito un tono epico e misterioso, anticipando un punto cardine della trama. Dettagli come il movimento delle dita di Iduna sulla fronte di Anna per farla addormentare sono spie di un nuovo standard raggiunto nella recitazione dei personaggi e rendono evidente il lavoro di sviluppo sui genitori che, pur agendo indirettamente e in un altro tempo, si rivelano personaggi fondamentali di questo secondo film. Some Things Never Change. Una canzone corale a dir poco straordinaria. Ha il tradizionale ruolo delle happy village songs, brani il cui ruolo è mostrare allo spettatore la situazione di partenza. Qui in particolare viene fatto un vero e proprio elogio dello status quo, la rassicurante zona di comfort in cui troviamo i personaggi all’inizio del film. Per l’occasione vediamo Arendelle immersa nell’atmosfera autunnale, una visione romantica e a tratti malinconica. Il lavoro fatto sulla rimessa in scena del cast originale è ammirevole, gag e trovate visive si sprecano, ma più di ogni altra cosa colpisce la regia, il modo in cui la telecamera si muove all’interno dei suggestivi scenari, la loro illuminazione e la disposizione di ogni singolo elemento sulla scena. Into the Unknown. Realizzare un seguito di Frozen significava anche misurarsi con l’aspettativa di dover creare un erede di Let It Go, la sua canzone più iconica. Piuttosto che cercare di bissare goffamente il ricordo di quella hit, i Lopez decidono di creare ben due numeri musicali per Elsa, intensi e narrativamente giustificati. Into the Unknown è il primo e ci mostra una protagonista irrequieta, tentata suo malgrado dal richiamo dell’ignoto. La sequenza è uno spettacolo per gli occhi e per l’anima: la mimica della riluttante Elsa già durante le prime strofe è da manuale dell’animazione. Poi si innesca quel crescendo che rende finalmente giustizia agli acuti di Idina Menzel e la sequenza abbandona ogni pretesa di realismo, dipingendo davanti agli occhi dello spettatore forme e astrazioni che anticipano ciò che la storia ha in serbo. When I Am Older. Come nel primo film anche qui il personaggio di Olaf ha una sequenza musicale tutta sua che funge da divertissement e stempera i toni seriosi. La crescita, il cambiamento e il raggiungimento di una presunta maturità sono temi che lo caratterizzano per tutto il secondo capitolo e questo si riflette nella sua canzoncina, che lo accompagna mentre fugge dagli spiriti elementali nella foresta. Il peso della sottotrama di Olaf però nel film non si avverte abbastanza, e di conseguenza il suo numero risulta fuori posto e poco amalgamato col resto. Lost in the Woods. Sin dalle prime stesure del film l’idea di un momentaneo allontanamento tra Anna e Kristoff era presente. Nel prodotto finito di quest’idea è rimasto molto poco, e la coppia va semplicemente incontro a diversi equivoci, senza che si arrivi mai ad un reale punto di rottura. Le doti canore di Jonathan Groff vengono però sfruttate con questa romantica ballata rock. Si tratta di un pezzo a dir poco straordinario, a cui tuttavia la storia del film non offre un gran servizio. La sottotrama di Kristoff, come quella di Olaf, viene infatti appena accennata e non viene costruito un percorso adeguato a sostenere un numero musicale a tema. La sequenza viene però ampiamente riscattata dal suo sottotesto umoristico: oltre a contenere un gustoso reprise di Reindeer(s) Are Better Than People che ci permette di veder finalmente “cantare” la renna Sven, l’intero numero viene confezionato per richiamare lo stile dei videoclip anni 80. Una sequenza musicale controversa quindi, spiazzante per una parte di pubblico, geniale per un’altra. Show Yourself. Alcune note di pianoforte commentano la cavalcata di Elsa in groppa al Nokk mentre si dirige verso il capolinea della sua esistenza terrena. Il galoppo avviene sulla superficie di un mare in tempesta, eppure allo spettatore viene trasmessa soltanto la pace provata dal personaggio. Questo scenario onirico e dal sapore ultraterreno ben presto lascerà il posto allo sfarzoso palcoscenico di Ahtohallan in cui Elsa troverà le risposte e la sua ragion d’essere. Quiete, commozione, euforia, un crescendo di sentimenti così forte, così epico da trascendere quanto visto fino a quel momento. Show Yourself è tutto questo e molto di più. Si tratta della scena madre del film e del miglior risultato a cui l’arte dell’animazione digitale sia mai giunta fino ad oggi. In questa apoteosi musicale, narrativa ed estetica, Elsa assurge ad un nuovo piano di esistenza, consacrandosi come uno dei personaggi Disney migliori di sempre. Una sequenza unica, piena di audaci guizzi visivi e sapiente nella sua capacità di sfiorare e fondersi con gli altri temi musicali del film, riprendendo sia le note di Into the Unknown, sia una strofa di All Is Found. Il cinema disneyano al suo meglio. Difficile riuscire a fare più di così. The Next Right Thing. Di norma si tende ad evitare di inserire canzoni nuove in fase troppo avanzata, lasciando il posto a semplici reprise di brani precedenti. Inoltre, in presenza di pezzi molto tristi, la telecamera non indugia mai molto sul personaggio che canta ma preferisce creare delle panoramiche complessive dell’ambiente circostante. Ma dopo una sequenza del calibro di Show Yourself e dopo aver traumatizzato lo spettatore con gli eventi successivi, è come se il film decidesse di aver investito abbastanza da potersi permettere di infrangere il codice. Con The Next Right Thing seguiamo in modo ravvicinato Anna mentre passa dallo sconforto alla ripresa. Si tratta ancora una volta di una sequenza artisticamente incredibile. Il lavoro di sviluppo fatto sul personaggio è di tutto rispetto, sia sul fronte psicologico, sia su quello dell’animazione. Le espressioni facciali, l’illuminazione della sequenza mentre la vediamo uscire dal baratro e l’alta qualità della musica restituiscono a questo audace brano una sua ragion d’essere.Per amor di completezza vanno segnalate inoltre le versioni pop di All Is Found, Lost in the Woods e Into the Unknown che accompagnano i titoli di coda. Mentre le prime due non presentano vistose differenze con la versione presente nel film, la terza, eseguita dai Panic! at the Disco è davvero notevole e rivaleggia in intensità con l’originale di Idina Menzel.
Mai Più Porte Chiuse!

In conclusione, Frozen II è un film sontuoso. Decisamente più sofisticato, più cerebrale, più studiato del primo capitolo. È il trionfo dello staging, ovvero il principio dell’animazione che insegna a disporre gli elementi scenici nel modo più chiaro e accattivante possibile, creando nello spettatore una reazione emotiva positiva. Difficilmente si era vista una tale padronanza della propria visione artistica, un tale orgoglio nel presentare al pubblico il proprio punto di vista sul medium animazione. Di contro, Frozen II risente della sua stessa ambizione, risultando a tratti farraginoso, imperfetto e generalmente meno spontaneo del predecessore. Al netto di alcuni fisiologici difetti, però, siamo di fronte ad un sequel da manuale, realizzato ponendosi le domande giuste e coltivando i ragionamenti giusti, in grado di far credere davvero allo spettatore di esser di fronte alla seconda metà di un progetto più grande.
Alla fine del 2019 il film esordì ad Hollywood, e alla premiére venne accompagnato da una sorpresa. Il cortometraggio Myth: A Frozen Tale, seconda opera in VR prodotta ai WDAS, che proponeva al pubblico l’indimenticabile esperienza di immergersi nella mitologia della Foresta Incantata, navigando fisicamente tra gli spiriti elementali, nella loro versione bidimensionale e astratta ispirata all’arte di Mary Blair. Frozen II fu un successo incredibile, superando il predecessore e confermandosi come il lungometraggio WDAS più redditizio prodotto fino a quel momento. L’accoglienza da parte della critica fu un po’ più tiepida e, come spesso accade per i film su cui gravano aspettative tanto alte, non mancò quella parte di pubblico che rimase scontenta dello sviluppo dato alla vicenda delle due sorelle. La penetrazione culturale non fu la stessa del precedessore e la stessa Academy snobbò il film agli Oscar, concedendo solo una nomination per Into the Unknown ed escludendolo totalmente dalla corsa per il miglior film d’animazione, vinto invece dal pixariano Toy Story 4.
Ma una nuova importante pagina della storia dell’animazione disneyana era ormai stata scritta e il film si ritrovò ad avere un ruolo cruciale nelle strategie della Company pochi mesi dopo, in seguito all’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19. Quando il mondo entrò in quarantena e la piattaforma digitale Disney+ divenne uno dei pochi mezzi d’evasione ancora attivi, la casa del Topo fu costretta ad anticipare l’uscita di Frozen II, previsto per i mesi successivi, affinché il film recasse conforto al pubblico. Infine, l’animatore Hyrum Osmond si ritrovò al timone del progetto At Home with Olaf, una serie di ventuno brevissimi sketch con protagonista Olaf realizzati rigorosamente tra le mura domestiche e rilasciati sui social come appuntamento quotidiano durante la fase più acuta della pandemia. In un modo o nell’altro, il franchise di Frozen era riuscito a ricreare quella magica connessione col pubblico, rivelandosi un vero e proprio antidoto contro la depressione e la solitudine, e aiutando ancora una volta le persone a sopportare il peso di una porta chiusa.


di Valerio Paccagnella - Laureato in lettere moderne, è da sempre un grande appassionato di arti mediatiche, con un occhio di riguardo per il fumetto e l'animazione disneyana. Per hobby scrive recensioni, disegna e sceneggia. Nel 2005 fonda “La Tana del Sollazzo”, piattaforma web per la quale darà vita a diverse iniziative, fra cui l'enciclopedico The Disney Compendium e Il Fumettazzo, curioso esperimento di critica a fumetti. Dal 2011 collabora inoltre anche con Disney: scrive articoli per Topolino e Paperinik, e realizza progetti come la Topopedia (2011), I Love Paperopoli (2017) e PK Omnibus (2023).

Scheda tecnica
- Titolo originale: Frozen II
- Anno: 2019
- Durata:
Credits
Nome | Ruolo |
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